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Stupida io che ci ho creduto. Alle parole, agli occhi, alle mani, agli orgasmi.
Stupida io che mi vedevo in un letto con te accoccolata a guardare un film, in un letto a violentarsi, in un letto a godere, in un letto a guardarsi e sorridere in silenzio.
Stupida io che speravo saresti rimasto con le parole, con le unghie e i denti, con la colla, lo scotch, il coraggio, gli aghi e i fili, per provarci, per restare.
Stupida io che faccio dipendere da te il mio umore, che ci sto male, che ancora, forse, ci spero, perchè ho ancora, forse, bisogno di te.
Stupida io, che pensavo alle sere d’estate, al mare, ad altre stazioni, ad altre canzoni, ad altre fantasie da avverare.
Stupida io che, alla vigilia di un esame, scelgo di risponderti alle 5 e mezza del mattino e non sono più in grado di riacquistare il sonno.
Stupida io, che, seppur delusa, cerco di aggiustare le cose, con le parole, con le unghie e i denti, con la colla, lo scotch, il coraggio, gli aghi e i fili.

Stupida. Ma mi tengo il buono. Come sempre. Anche se non vuoi ascoltarmi. Anche se ormai hai deciso. Mi tengo il batticuore nel primo abbraccio dopo giorni di assenza, i baci e i sorrisi; mi tengo uno scontrino sul cui retro hai scarabocchiato la strada che dovevo fare per prendere l’autostrada e tornare a casa; quei piccoli ricatti per farmi studiare; mi tengo quell’intimo “cinque altissimo”; quel momento in cui fermi tra le due macchine stavo per tornare a casa, e alla fine no; quella mano sotto la gonna seduti al bar; l’ora passata a cantare e indovinare canzoni; l’ultima stretta di mano mentre salgo su un treno; l’immagine delle tue spalle mentre te ne vai e cerchi col maglione di coprire un amore non consumato.
E quella canzone dal minuto 2:25.
Mi tengo il buono.
E non puoi portarmelo via.
E non puoi punirmi anche per questo.


Imma


Una stazione da demolire.

A New York, un tempo, esisteva una stazione: la Penn Station. Venne costruita per collegare Jersey City a Manhattan. Ed era una stazione bellissima: in granito rosa, circondata da un colonnato dorico, la sala d’aspetto principale era ispirata alle terme di Caracalla di Roma, vasta quanto la navata principale della basilica di San Pietro. Era il luogo al coperto più grande di New York e uno dei più estesi al mondo.
Nel 1963 la stazione cominciò ad essere demolita. Dopo la crisi del settore ferroviario degli anni cinquanta e considerato che i lavori di manutenzione costavano troppo, la struttura sovrastante i binari della Penn Station fu rasa al suolo. Al suo posto una stazione più piccola, sottoterra, allo stesso livello dei binari. Lo spazio sovrastante venne occupato da Penn Plaza e dal Madison Square Garden.
La stazione bellissima, di acciaio, granito e colonnati sparì. Vi furono proteste in tutto il mondo, ma sparì. Vincent Scully, professore di Storia dell’arte e dell’architettura a Yale, commentò la demolizione dicendo che prima uno entrava nella città come un dio; ora entrava strisciando come un topo.

Alcune persone, certi giorni, mi fanno sentire come la Penn Station: qualcuno da ammirare, qualcuno da scoprire, qualcuno da frequentare, qualcuno in cui entrare. Ma non appena divento inutile, non appena divento impegnativa, non appena c’è qualcosa di più bello e di più nuovo da scoprire all’esterno, allora vengo abbandonata e demolita. Senza colpe particolari se non quelle di essere me stessa, di essere sincera e di non venire capita, tanto meno creduta.

Ché la fiducia è dolorosa per chi la dà, ma lo è di più per coloro ai quali non viene data.

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